Bentornati a tutti i miei lettori, spero che il ritorno alla normalità stia procedendo bene e senza troppe sorprese.
Volevo raccontare alcuni casi tipici legati a mestieri, sport e situazioni, tratti dall’esperienza reale, per aiutare molti di voi a riconoscersi senza pregiudizi nel caso di qualcun altro e da quello farsi ispirare.
Per rendere questo articolo più intrigante, ho deciso di narrare i fatti al contrario, partendo magari dalla fine della storia, per mettere in primo piano il punto di arrivo del processo di valutazione e di creazione della soluzione e fornirvi un’idea viva di come ci si senta dopo aver risolto un fastidioso problema.
L’aspetto curioso del racconto consiste nella scoperta progressiva dell’identità del paziente protagonista del caso. Uno di noi che un giorno ha incontrato un ostacolo e ha deciso di non rassegnarsi al dolore e al disagio.
Quindi dicevamo che si parte al contrario:
Bonate Sopra, un venerdì sera dello scorso fine luglio intorno alle sette, dopo una giornata piena di appuntamenti. Finito l’ultimo paziente, scendo nel locale sotto lo studio perché ho deciso che mi merito una birra rinfrescante. Ordino la mia birra e me la gusto, la mascherina unita alla visiera rendono tutto più difficile, si sa. La sete è costante. Penso che per questa settimana è finita, scorrono altri pensieri liberi e veloci, la tensione comincia a mollare. Vado a pagare in cassa e la ragazza mi fa cenno che non devo nulla perché il conto è già stato sistemato.
Sorpreso, accenno con le mani un perché. Lei gira gli occhi verso sinistra e a quel punto vedo l’ultimo paziente con il suo drink in mano, una gamba giù dallo sgabello. Mi strizza l’occhio alza il bicchiere, credo di intravedere un fumetto che dice: ”grazie”. Annuisco con la testa, alzo la mano destra in segno di saluto misto a ringraziamento. Esco dal locale ancora col sorriso, non visto, mi dico a bassa voce “bene dai”, stringo il pugno e esulto, da solo, col braccio a mezz’aria.
Due mesi prima, dopo la riapertura delle attività, mi arriva una chiamata breve e concisa, fisso un appuntamento per le 19 di due giorni dopo. Scrivo in agenda sig. X per valutazione posturale. Il racconto è stato essenziale: “mi hanno detto di venire da lei che si occupa di queste cose, arrivo non prima delle sette di sera, vengo diretto dal lavoro”.
Quale lavoro? Quali cose? Vedremo dico tra me e me.
Arriva il giorno dell’appuntamento, con quasi mezz’ora di anticipo suona il campanello il Sig. X.
Zaino su una spalla, jeans vissuti, scarpe comode. Inizio la valutazione prima di parlare. Spalle leggermente ricurve, braccia forti e asciutte, mani nodose con palmi grandi, qualche vecchia cicatrice. Gambe asciutte, muscoli e tendini tesi, passo calcato.
Non ci stringiamo la mano, non si fa più. Lo faccio accomodare, ha la mascherina, io pure, mi sa che parleremo poco. Apre lo zaino e tira fuori qualcosa. Adesso non posso dire cosa fosse sennò svelo il finale.
Capisco che quel qualcosa è il motivo per cui il Sig. X è lì. Mi mostra i punti dove ha dolore. Mi racconta come si manifestano i fastidi, mi colpiscono alcune parole chiave del suo racconto tra cui blocchi di pietra, movimenti a risparmio, poca sensibilità, dolori alle piante dei piedi, a polpacci e ginocchi. Vedo preoccupazione, certe volte la vita non lascia molte alternative, ci si sforza, si resiste ma non si molla, lui però non lo dice.
Comincio la mia valutazione, impronte, analisi computerizzata del passo, postura, anche e schiena, viene poi il momento delle domande.
Una volta tornato a sedere il Sig. X, risponde alle mie richieste e intanto preme sotto il piede nel punto dove il dolore è maggiormente concentrato, lo fa quasi in modo inconsapevole e in questo tradisce un pensiero ricorrente.
Stampo la valutazione e gliela mostro, lui annuisce, parlo allora della soluzione. Devo trasferire con chiarezza come intendo porre rimedio al dolore continuo a piedi e gambe del mio paziente, voglio che prefiguri anche lui come il plantare gli porterà sollievo e a quali condizioni.
Spiego al mio paziente, un lavoratore edile quarantenne, che il plantare all’interno delle scarpe anti-infortunistiche, non di rado acuisce alcuni problemi del piede, ma con un plantare apposito – solo per la scarpa da lavoro – si può correggere gli appoggi dentro alla scarpa professionale e si può inoltre ripristinare le fasi del passo che altrimenti vengono impedite dalla struttura rigida della calzatura.
La condizione essenziale è che il plantare venga portato con continuità in cantiere.
Due mesi dopo, il Sig. X viene zelante a effettuare il primo controllo, poche parole all’ingresso, controllo il plantare, chiedo come va. Lui mi risponde che funziona, che i dolori sono attenuati che i piedi non dolgono più. Restituisco il plantare e gli dico di tornare tra sei mesi. Lui li agguanta e li mette al sicuro nello zaino. Saluta andandosene poi si ferma e dice che ci sarà.
La fine l’avete già letta, lavorare senza dolore è possibile anzi è un diritto.
A presto.
Pierpaolo Gasparini.